Nel saggio Vivere con gli animali, Jocelyne Porcher analizza la deriva dell’allevamento, sempre più industrializzato e inumano, chiedendosi quale sia il suo futuro.
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Da oltre diecimila anni l’uomo, ovvero fin da quando ha iniziato il processo di domesticazione di alcune specie animali, ha instaurato con loro un rapporto intenso, fatto, se non di amore, di grande rispetto, conoscenza e riconoscenza. Oggi questo rapporto ancestrale sembra essersi incrinato, forse definitivamente, a causa dell’industrializzazione dell’allevamento che ha ridotto gli animali (ma non solo) alla stregua di macchine. Cosa si potrebbe salvare oggi dell’allevamento? È ancora possibile vivere con gli animali? Da queste domande parte la ricerca di Jocelyne Porcher, sociologa francese all’Institut national de la recherche agronomique (Inra) e autrice del saggio Vivere con gli animali. Un’utopia per il XXI secolo.
Dove c’è industria, non c’è allevamento possibile
Cosa intende l’autrice per allevamento? Sgomberando subito il campo dagli equivoci specifica che “non esiste un allevamento industriale,
là dove c’è industria non c’è
allevamento possibile”. Porcher ritiene
dunque che nell’allevamento la dimensione affettiva abbia la stessa
importanza di quella economica. Nell’allevamento gli animali mantengono
una individualità, sono comunque destinati ad essere uccisi ma nel
frattempo, in cambio, vengono ospitati, nutriti e curati.Animali o macchine?
Fin dai suoi albori la zootecnia ha considerato gli animali non come
esseri viventi, capaci di soffrire ed essere felici, bensì come
macchine, fonti di profitto. Secondo l’autrice è fondamentale, non solo
per il benessere degli animali ma per salvare la nostra stessa umanità,
continuare a vivere e cooperare con gli animali, conservando quel rapporto di co-lavoro ed empatia
che caratterizza la nostra società da millenni. L’avvento del
capitalismo ha prodotto un degrado dai rapporti umani, e lo stesso è
accaduto con gli animali. “Mentre da un lato aumentavano le rese, la
felicità di stare con le bestie si è dissolta nelle colonne di numeri e
calcoli relativi alla loro produttività”.
Sofferenza animale e umana
La zootecnia ha pertanto trasformato il legame tra uomini e animali
in un rapporto utilitaristico “fondato sul disprezzo e sulla negazione
sia degli esseri umani sia degli animali”. Nella produzione animale
industriale, afferma Porcher, esiste una sorta di contagio della sofferenza tra animali e lavoratori.
L’immane dolore che permea quelle strutture altamente meccanizzate,
dove migliaia di animali vengono ammazzati quotidianamente, si riflette
dunque su chi ci lavora. “La sofferenza risulta, da una parte, dalla
fatica fisica del lavoro, ma anche, e soprattutto, dal suo contenuto
violento”. Questa violenza si scontra, inevitabilmente, con il
coinvolgimento affettivo che nasce tra lavoratori e animali. Se in
queste strutture si vuole evitare di soffrire è meglio, suggerisce
Porcher, “non amare gli animali. I soli che possono essere sentimentali
sono gli allevatori autonomi”.
Il legame si è spezzato
“Ci sarebbe stato un prima e un dopo – scrive con amarezza Porcher. –
Prima, la domesticazione, il proto-allevamento e poi l’allevamento
contadino. Dopo, la scienza che lo prende in carico, ovvero le
produzioni animali, segnando la fine della storia del nostro rapporto
arcaico con gli animali”. La progressiva scomparsa degli allevamenti,
così come li intende Porcher, parallela all’avanzare degli allevamenti
intensivi, determina, oltre al degrado ambientale, la perdita di quel rapporto che da sempre si instaura tra allevatori ed animali,
“in nome del profitto l’allevamento, gli allevatori e gli animali di
allevamento stanno scomparendo”. Di conseguenza i consumatori non sanno
più bene che cosa sia l’allevamento, “molti non sanno che perché una
vacca produca il latte è necessario abbia il vitello”.
Gli animali nella società umana
Gli animali, nonostante quello che la zootecnia ha provato ad
inculcarci, non sono soltanto oggetto del lavoro, ma “partecipano alla
vita sociale. Lavorare con gli animali equivale a vivere con gli
animali. Le società umane si sono costruite, nel bene e nel male,
assieme agli animali. Essi fanno parte di noi, della nostra identità di esseri umani”.
Ci sarebbe un rapporto di scambio tra gli allevatori e i loro animali,
secondo l’autrice del libro. “Gli animali donano la loro presenza, la
loro fiducia, il loro affetto. Comunicano con i loro allevatori e
accettano le regole del lavoro. Anche gli allevatori donano affetto ai
loro animali, dimostrano loro rispetto e ammirazione, e fanno del loro
meglio per offrire loro una buona vita. Non si tratta di negare la
morte, ma di ricordarsi che la morte e la vita sono inseparabili. E ciò
che conta per gli allevatori, prima della morte, è la vita”.
Il futuro degli animali da allevamento
Gli animali da allevamento sarebbero dunque in via di estinzione,
avverte l’autrice, nell’indifferenza generale. “La perdita rimane
impercepita perché non sappiamo cosa stiamo perdendo. L’allevamento non
si riduce alla sua logica produttiva. È un tassello della nostra
cultura, un tassello della nostra storia. Della storia degli uomini e degli animali. È un bene comune”.
Una visione non (solo) utilitaristica dell’allevamento
Porcher cerca di nobilitare l’allevamento mettendone in secondo piano la visione utilitaristica. L’analisi della relazione tra umani e animali si
fonda solitamente sul concetto di interesse, la sociologa francese
ritiene invece che “pensare in chiave utilitaristica la domesticazione
riduce il nostro rapporto con gli animali a un puro rapporto di
interesse, mentre al contrario abbiamo con gli animali rapporti in cui
si mescolano atteggiamenti utilitaristici e un approccio
disinteressato”.
La differenza tra allevamento e produzioni animali
L’autrice del libro è fermamente convinta che ci sia una separazione
netta tra allevamento (che dura da 10mila anni) e produzioni animali
(che esistono solo da centocinquant’anni), e che queste ultime non siano
il seguito logico dell’allevamento. “Evidenziare le differenze
fondamentali che esistono tra questi due tipi di attività, consiste nel non utilizzare la parola allevamento quando si tratta di industria, e viceversa”.
Le parole quindi sono importanti, come definire, dunque, gli
allevamenti intensivi? “Insieme di attività fondate sulla divisione del
lavoro e sulla specializzazione, che hanno per oggetto lo sfruttamento
su grande scala di animali domestici, al fine della loro trasformazione
in beni di consumo con il migliore e più rapido rendimento tecnico e
finanziario possibile”.
La dipendenza dalla produttività
La produzione animale è incentrata sulla produttività, gli animali
devono produrre e rispettare certi standard, altrimenti vengono
abbattuti. “Come evidenzia Isabelle Sorente i numeri sono diventati per
noi una droga, dipendiamo da loro per vivere. La produzione di numeri
finisce per sostituirsi al nostro pensiero. Per la Sorente solo il sentire compassione ci permetterà di recuperare la ragione”.
Come muoiono gli animali
L’autrice racconta la propria esperienza all’interno di diversi
macelli, nei quali si è recata in passato per effettuare ricerche sul
benessere animale. Nei macelli, afferma Porcher, le maggiori sofferenze
sono causate dai tempi stretti dettati dalla necessità di produrre e uccidere in massa il più velocemente possibile. Inoltre, paradossalmente, sostiene che per gli animali allevati in buone condizioni il macello industriale
genera una sofferenza maggiore. “I maiali che uscivano da sistemi di
produzione industriale arrivando al macello non cambiavano radicalmente
universo. Non è questo il caso degli animali che arrivano da sistemi
bio”.
Come contrastare l’impatto ambientale degli allevamenti
Porcher riconosce, naturalmente, il deleterio impatto ambientale degli allevamenti intensivi, che contribuiscono in maniera massiccia ad inquinare e deforestare il pianeta.
Tuttavia ritiene che le soluzioni proposte per contenere tale problema
siano parziali e solitamente non propongono alcuna alternativa se non il
vegetarianesimo. Nel rapporto Filière animale et climat,
gli autori suggeriscono di aumentare la produzione e il consumo di soia
e pollame, confondendo inoltre tra “allevamento” e “produzioni
animali”. Questa confusione, secondo l’autrice, “rivela l’ignoranza di
molte persone riguardo a cosa sia davvero l’allevamento”.
Il futuro dell’allevamento
“L’allevamento sta sparendo in quanto rapporto di lavoro con gli
animali domestici”. Jocelyne Porcher non cela il suo pessimismo,
ritenendo che tornare a vivere con gli animali in un modo più solidale e
umano sia, appunto, un’utopia. “Come si può pensare di attribuire
valore alla vita degli animali, quando il nostro stesso valore di esseri
umani è negato? Diventiamo noi stessi bestie di un macello senza fede
né legge, a immagine delle produzioni animali: materia animale,
materiali umani venduti all’asta”. Ciononostante l’autrice ci invita a
sognare, a sognare un mondo retto dalla “politica della civiltà”, nel
quale bisognerà ripensare un’altra vita di lavoro con gli animali,
perché vivere con loro è ancora possibile e perché senza di loro non saremmo più umani, ricordando però che “per continuare a vivere con le bestie, occorre cambiare le fondamenta del mondo”.
Sabato 16 settembre Cheese ospiterà una conferenza sul tema del benessere degli animali, prendendo in considerazione aspetti come l’alimentazione, gli spazi, le mutilazioni, il pascolo. Fra i relatori della conferenza Allevare gli animali o vivere con gli animali, anche Jocelyne Porcher, sociologa all’Institut national de la recherche agronomique (Inra) e autrice del libro Vivere con gli animali – Un’utopia per il XXI secolo, recentemente pubblicato da Slow Food Editore.
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