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In settimana è diventato realtà il provvedimento che impone di
informare il consumatore sull’origine del latte e di tutti i prodotti
lattiero caseari, indicando in etichetta sia il Paese di mungitura che
quello di confezionamento. Bene, anzi benissimo, ma guai a vedere in
questa indubbia conquista un punto d’arrivo, piuttosto che un trampolino
di lancio. Sapere se il latte che beviamo ogni mattina è italiano è un
passo avanti, tuttavia non ci dice nulla sulla qualità del prodotto ed è
troppo poco per quegli allevatori che vogliano differenziarsi in
positivo.
Ecco perché c’è bisogno di incentivare un’etichetta narrante, cioè di
una “carta d’identità” trasparente e completa che offra
il maggior
numero di informazioni sui pascoli, sull’azienda, sul tipo di
allevamento, sul luogo di origine (oltre all’indicazione del Paese).
L’etichetta narrante è al centro delle linee guida per il latte
alimentare che Slow Food sta elaborando e che propongono anche
l’eliminazione di mangimi che possono contenere Ogm, additivi e ormoni,
oltre a condizioni di allevamento che garantiscano agli animali la
possibilità di uscire all’aperto e di muoversi in stalla. Ma non è
tutto: la ricerca di qualità nella materia prima deve tradursi in un
balzo in avanti per l’intera filiera. Nella prossima edizione di Cheese,
la ventennale rassegna di Slow Food dedicata ai prodotti caseari, si
troveranno in vendita solo formaggi a latte crudo. Una scelta forse
rischiosa ma necessaria, per contribuire a valorizzare un settore,
quello lattiero caseario, che più di altri può pensare al futuro solo se
non perde per strada le produzioni migliori.
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