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Fonte notizia:
In attesa delle linee guida sulle
recenti normative approvate dalla Regione che consentono la
commercializzazione di bestiame vivo verso altre regioni di fatto è
stata aperta un’importante finestra commerciale, in particolare con
Veneto, Valle d’Aosta e Svizzera.
La recente normativa è stata giudicata positiva, ma la situazione del
comparto è stata definita “semplicemente drammatica” da Elvio Puxeddu,
il più grande allevatore di bovini della Piana di Santadi, che precisa:
“Negli ultimi 10 anni abbiamo perso il 30% delle aziende e il 50% del
valore dei nostri prodotti”.
Qual è la situazione attuale per il comparto degli allevatori sardi?
Normalmente, quando parliamo di allevatori isolani, intendiamo quelli di
vacche da latte, in particolare di Arborea, estendendo il concetto a
tutta l’isola. L’analisi è però complessa e le problematiche degli
allevatori sono diverse nelle varie province e in relazione al bestiame
(bovini, pecore o capre) dove si dovrebbero prevedere soluzioni più
specifiche. Gli allevatori di vacche da carne, proprie del Medio
Campidano e di bovini dell’alto oristanese, sia allo stato brado che
stanziale, sembrano figli di un dio minore e sono all’attenzione dei
media solo per le notizie di cronaca relative all’abigeato mentre in
realtà hanno problemi di linee guida in particolare sulle autorizzazioni
commerciali. La zootecnia storica isolana soffre, ha sempre sofferto, e
in passato questo significava ricevere interventi di sostegno, ma oggi
il concetto di sofferenza è reale e comporta la progressiva perdita del
patrimonio aziendale per l’abbandono della produzione. Quando
un’azienda, specie se si tratta di vacche da carne, chiude,
difficilmente riapre. La Sardegna produce circa il 25% di quanto
consuma. I prezzi di vendita sono fermi a quotazioni di oltre 10 anni fa
mentre i costi di produzione hanno seguito il trend. Basti pensare che
oggi il prezzo per kg di peso vivo di un vitello da macello oscilla in
media tra 1,50 e 2,50 euro, pari a 3.000 – 5.000 lire del vecchio conio.
La domanda è: come mai in una regione che produce così poco rispetto al
proprio fabbisogno, i prezzi sono questi? La risposta è nella
concentrazione forte della “domanda” (siamo in presenza di un monopsonio
o al massimo di un oligopsonio) e nell’eccessiva frammentazione
dell’offerta. Ripeto, la situazione degli allevamenti e degli allevatori
in Sardegna è drammatica, negli ultimi 10 anni abbiamo perso il 30%
delle aziende e il 50% del valore dei nostri prodotti. Il debito verso
fornitori e banche è cresciuto a dismisura e si sta vivendo una crisi
che può solo peggiorare l’allarmante stato delle cose. I costi di
produzione sono alle stelle mentre il livello di sostenibilità di
un’impresa è ormai sotto la soglia di guardia. Se non fosse per la
passione che gli allevatori mettono nel proprio lavoro oggi le aziende
chiuderebbero.
Perché la questione resta irrisolta?
Credo che dipenda da un insieme di comportamenti ignavi progressivi: ognuno pensa che non è colpa sua, che non compete a lui, e che la questione è troppo grande. Ovviamente tutti la pensano così, con uno sgravio di responsabilità che rende complici tutti, a partire dal singolo produttore, che si crede furbo al punto di ritenere di vincere da solo e fregarsene (o addirittura compiacersi) se il suo vicino sta male o affoga; per continuare con le cosiddette cooperative che ormai non si capisce chi o cosa tutelino, se non i propri schemi ideologici, in barba alle più banali regole economiche, per finire con le amministrazioni pubbliche, colpevoli di grande latitanza e ignoranza delle problematiche di settore. Certo, una buona fetta di responsabilità è delle industrie, che badano al loro profitto e non hanno interesse a sostenere un’economia capillare. Posso permettermi un azzardo, ogni allevatore agisce in modo isolato, scoordinato, a volte contrapposto, favorendo la controparte. Ognuno si comporta come un virus, colonizzando il colonizzabile fino alla morte dell’ospite. Il massimo della lungimiranza che oggi osservo, guardando a 360 gradi, è che non si riesce a guardare oltre la punta del proprio naso.
Cosa servirebbe al comparto?
Sicuramente una nuova classe dirigente a tutti i livelli. Maggiore formazione e maggiore assistenza, di quella vera, non fatta solo per beneplacito elettoralistico. Entusiasmo e orgoglio da risvegliare. Leggi che tutelino le produzioni e le differenzino, consentendo una conoscenza e una libertà di scelta non forviata da falsi concetti. Le aree militari come quella di capo Frasca vanno assegnate a cooperative che sappiano veramente operare per il bene dei soci, che devono sentirsi sempre e comunque parte integrante del processo. Servono cooperative che sappiano concentrare l’offerta e la domanda, permettendo un ritorno per miglior prezzo ma soprattutto per minor costo. Rilanciare tutto un insieme di microeconomia, sfruttando la peculiarità della razza bovina sarda, tutelandone le caratteristiche senza perdere di vista la sicurezza animale. A oggi si è lavorato con ignoranza e mirando a uniformare le caratteristiche qualitative, annullando i pochi punti di forza che potevamo mettere in campo. Formazione dei controllori, che devono perseguire chi froda anziché accanirsi sui piccoli produttori locali, che si dissuadono facilmente, lasciando a se stessi le grandi lobbies. Promuovere i consumi locali, a sostegno dell’economia dell’isola. Inserire una percentuale obbligatoria di prodotti isolani certi, non fatti dai furbi, nelle mense specialmente ospedaliere, scolastiche, delle forze armate e altro. Avere maggior cura di cosa mangiano i nostri figli e i nostri ammalati otterrebbe un duplice beneficio, benessere per loro e ritorno economico per la nostra terra. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Mai simile massima fu più azzeccata. Smettiamo di essere noi la causa del nostro male, che nessuna crisi è così grande da non poter essere superata. Il mostro, spesso, è meno brutto di quanto sembra, ma ci vuole forza e costanza, e soprattutto una visione chiara di quello che si vuole fare della propria esistenza e del rispetto e riscatto della propria terra.
Perché la questione resta irrisolta?
Credo che dipenda da un insieme di comportamenti ignavi progressivi: ognuno pensa che non è colpa sua, che non compete a lui, e che la questione è troppo grande. Ovviamente tutti la pensano così, con uno sgravio di responsabilità che rende complici tutti, a partire dal singolo produttore, che si crede furbo al punto di ritenere di vincere da solo e fregarsene (o addirittura compiacersi) se il suo vicino sta male o affoga; per continuare con le cosiddette cooperative che ormai non si capisce chi o cosa tutelino, se non i propri schemi ideologici, in barba alle più banali regole economiche, per finire con le amministrazioni pubbliche, colpevoli di grande latitanza e ignoranza delle problematiche di settore. Certo, una buona fetta di responsabilità è delle industrie, che badano al loro profitto e non hanno interesse a sostenere un’economia capillare. Posso permettermi un azzardo, ogni allevatore agisce in modo isolato, scoordinato, a volte contrapposto, favorendo la controparte. Ognuno si comporta come un virus, colonizzando il colonizzabile fino alla morte dell’ospite. Il massimo della lungimiranza che oggi osservo, guardando a 360 gradi, è che non si riesce a guardare oltre la punta del proprio naso.
Cosa servirebbe al comparto?
Sicuramente una nuova classe dirigente a tutti i livelli. Maggiore formazione e maggiore assistenza, di quella vera, non fatta solo per beneplacito elettoralistico. Entusiasmo e orgoglio da risvegliare. Leggi che tutelino le produzioni e le differenzino, consentendo una conoscenza e una libertà di scelta non forviata da falsi concetti. Le aree militari come quella di capo Frasca vanno assegnate a cooperative che sappiano veramente operare per il bene dei soci, che devono sentirsi sempre e comunque parte integrante del processo. Servono cooperative che sappiano concentrare l’offerta e la domanda, permettendo un ritorno per miglior prezzo ma soprattutto per minor costo. Rilanciare tutto un insieme di microeconomia, sfruttando la peculiarità della razza bovina sarda, tutelandone le caratteristiche senza perdere di vista la sicurezza animale. A oggi si è lavorato con ignoranza e mirando a uniformare le caratteristiche qualitative, annullando i pochi punti di forza che potevamo mettere in campo. Formazione dei controllori, che devono perseguire chi froda anziché accanirsi sui piccoli produttori locali, che si dissuadono facilmente, lasciando a se stessi le grandi lobbies. Promuovere i consumi locali, a sostegno dell’economia dell’isola. Inserire una percentuale obbligatoria di prodotti isolani certi, non fatti dai furbi, nelle mense specialmente ospedaliere, scolastiche, delle forze armate e altro. Avere maggior cura di cosa mangiano i nostri figli e i nostri ammalati otterrebbe un duplice beneficio, benessere per loro e ritorno economico per la nostra terra. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Mai simile massima fu più azzeccata. Smettiamo di essere noi la causa del nostro male, che nessuna crisi è così grande da non poter essere superata. Il mostro, spesso, è meno brutto di quanto sembra, ma ci vuole forza e costanza, e soprattutto una visione chiara di quello che si vuole fare della propria esistenza e del rispetto e riscatto della propria terra.
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