Distribuzione organizzata - L’indagine dell’Antitrust ha messo in luce un modello di mercato distorto e una minaccia alla libera concorrenza, con danni sia ai produttori, sia ai consumatori.
Fonte notizia:
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) ha puntato il dito contro la grande distribuzione organizzata e, in particolare, contro la concentrazione e quindi la posizione dominante delle sue centrali d’acquisto. In verità, si tratta di un aspetto della filiera distributiva che da tempo il settore produttivo agroalimentare lamentava. Il ‘caso’ è scoppiato con la creazione della Centrale Italiana, una società cooperativa partecipata da cinque importanti catene della Gdo, tra cui Coop Italia e Despar ben presenti in Friuli Venezia Giulia. Questa supercentrale di acquisto nel 2013 ha raggiunto il 23% di quote di mercato in Italia, con punte tra il 40 e il 50% proprio nella nostra regione.
“I possibili effetti restrittivi sui
mercati di approvvigionamento conseguenti al possesso di un forte potere
di acquisto – si legge nella relazione dell’Autorità - possono
sostanziarsi in una
riduzione della capacità di competere dei produttori
contrattualmente più deboli, ma non per questo inefficienti, con il
risultato di comprimere, nel medio periodo, anche la varietà e la
qualità dei prodotti, oltre che gli sforzi di innovazione e gli
investimenti”. Contratti complicati
“Al riguardo, dall’indagine conoscitiva sulla Gdo - continua -, è emerso come l’esercizio del buyer power da parte delle catene distributive possa comportare, per imprese produttive più deboli, non soltanto una compressione dei margini di guadagno, ma anche una più generale difficoltà a svolgere e programmare adeguatamente la propria attività produttiva. In particolare, il quadro delle relazioni contrattuali esaminato nell’indagine ha evidenziato la presenza di accordi farraginosi e complessi, che, in molti casi: non vengono definiti prima del periodo di fornitura; sono integrati da richieste successive, da parte delle catene distributive, di modifiche unilaterali e retroattive delle condizioni trattate; non consentono agevolmente, soprattutto alle imprese dotate di minore potere contrattuale, la valutazione e il confronto delle condizioni economiche negoziate”.
L’Antitrust, però, rileva problematiche non solo a monte dei supermercati, cioè a discapito dei fornitori, ma anche a valle, cioè nell’interesse dei consumatori.
“L’intesa sulla Centrale Italiana – si legge ancora - è suscettibile di produrre effetti negativi anche sui mercati a valle, in termini di coordinamento delle politiche di vendita o, quanto meno, di forte riduzione degli incentivi a competere. Più in generale, poi, l’appartenenza alla supercentrale comporta un consistente scambio di informazioni aziendali sensibili tra le imprese che usufruiscono dei servizi di Centrale Italiana, sia sui costi e le condizioni di acquisto che su diversi aspetti delle politiche di vendita, circostanza che potrebbe costituire un ulteriore elemento di facilitazione della collusione tra le imprese aderenti all’alleanza”.
Dopo alcuni mesi dall’apertura dell’indagine, alla fine, le società coinvolte hanno assunto l’impegno di “sciogliere la stessa Centrale Italiana entro il 31 dicembre 2014, impegnandosi altresì a non svolgere alcuna attività di negoziazione nell’interesse di alcuna parte relativamente alla tornata contrattuale 2015” e a interrompere qualsiasi forma di collaborazione commerciale tra le 5 catene.
Lo scenario, comunque, è stato fotografato. Il modello distributivo in una fase di depressione dei consumi sta manifestando diverse problematiche, che colpiscono tutti gli anelli della filiera produttiva e distributiva. Se la posizione forte appare essere ancora quella della Gdo, anche in questo segmento però si stanno avvertendo le prime gravi difficoltà.
Non ci sono altre strade
Per la produzione agroalimentare non esistono alternative: è indispensabile confrontarsi con i canali della grande distribuzione organizzata e, quindi, anche con le grandi centrali d’acquisto. Altri canali, come la vendita diretta, troppo mitizzata, sono sole gocce nel mare. Il problema, secondo Nicola Galluà segretario generale di Confcooperative Fvg, è che in un periodo di forte crisi dei consumi, la guerra del prezzo si è giocata tutta sul mercato locale, anziché sfogare volumi e raccogliere margini all’estero dietro alla bandiera del Made in Italy.
È reale la sudditanza delle coop agroalimentari rispetto a posizioni dominanti della distribuzione commerciale?
“Va detto che la grande distribuzione rappresenta un canale di vendita necessario ogni qual volta un’impresa agroalimentare voglia avere successo su un mercato diverso da quello prettamente locale: pensiamo, forse, che Latterie Friulane, per fare un esempio, potrebbe vivere di sola vendita diretta?
Per i prodotti del Made in Italy, che tutto il mondo ci invidia, la grande distribuzione è, direi, indispensabile. Per essere presenti al meglio in questo canale di vendita, serve avere massa critica, prodotti di qualità controllati ed elevati volumi, oltre, ovviamente, a una struttura aziendale organizzata. Ogni azienda agroalimentare che voglia crescere e affermarsi sul mercato si pone l’obiettivo di entrare nella grande distribuzione organizzata per affermare i propri marchi e i propri prodotti.
Ciò rappresenta un investimento per il successo. Il problema, evidentemente, è che la grande distribuzione si trova oggi a operare in un clima di fortissima competizione tra i grandi marchi del settore, che nel nostro Paese vede a sua volta una posizione di riguardo per il settore cooperativo, ulteriormente resa feroce dal calo dei consumi in atto.
Il punto vero, sul quale io credo che la filiera tutta, di cui la grande distribuzione è l’anello finale, possa ritrovarsi unita, è fare il salto di qualità che porti il Made in Italy alla conquista dei mercati internazionali, dove far valere la qualità dei nostri prodotti. Già oggi, le cooperative agricole di successo sono quelle che esportano: penso, tra tante, alla Cantina di Casarsa”.
La vendita diretta è un’alternativa praticabile o solo un effimero palliativo?
“La vendita diretta può certamente rappresentare un’integrazione al reddito dell’azienda agricola, o un’occasione di diversificazione per la piccola cooperativa, ma non rappresenta assolutamente una soluzione strutturale per il sistema agricolo nel suo complesso. Basti pensare che in Friuli Venezia Giulia e in un settore specifico come quello lattiero-caseario, nel quale la vendita diretta è particolarmente diffusa, questa forma di commercializzazione rappresenta appena il 12% del totale.
Insomma, bisogna uscire dalle crociate ideologiche che hanno ‘mitizzato’ la vendita diretta, ingenerando anche nei produttori aspettative eccessive dalle quali rischiano di restare delusi. Certamente, è un canale che va esplorato e probabilmente anche potenziato, in particolare da parte delle aziende medio-piccole con un basso grado di specializzazione produttiva, disponibilità di manodopera familiare, come possono essere le aziende agricole che hanno avviato un’attività agrituristica. Oppure, può rappresentare un canale di integrazione al reddito per alcune cooperative, come le cantine e i caseifici, già strutturate per operare sul mercato. Pensare, invece, che la vendita diretta possa rappresentare una soluzione per aziende agricole strutturate a indirizzo cerealicolo-zootecnico è pura follia”.
Quale soluzioni proponete affinché un libero mercato possa valere negli interessi sia di chi produce, sia di chi consuma?
“Il mercato funziona se le regole sono certe, la burocrazia pesa poco, il carico fiscale si riduce. L’aumento dell’Iva in questi anni, per esempio, ha colpito i consumatori così come i produttori, perché ha depresso i consumi. Efficientare la filiera distributiva favorendo l’aggregazione, riducendo gli oneri burocratici e il carico fiscale sarebbero, invece, interventi di cui il consumatore fruirebbe direttamente. Il vero problema dell’agroalimentare italiano, però, è creare valore per gli agricoltori: senza di essi non c’è Made in Italy. Per fare questo serve un sistema Paese capace di puntare sull’export, serve un sistema cooperativo che punti sulla valorizzazione del prodotto, serve una filiera distributiva nazionale più efficiente e più portata ad accedere essa stessa sui mercati internazionali facendosi ambasciatrice dei nostri prodotti, penso al formaggio Montasio in particolare. Dobbiamo, poi, far tornare i giovani a pensare all’agricoltura come un’attività lavorativa attrattiva, fonte di reddito e capace di investire e rinnovarsi”.
Si perde o si vince tutti assieme
Si vince o si perde tutti, dal produttore al distributore. Lo sottolinea Fabrizio Cicero Santalena, direttore del Centro distributivo Despar del Friuli Venezia Giulia nonché direttore marketing di Aspiag Service, la società che gestisce 65 filiali dirette e circa 90 dettaglianti associati. Il marchio nella nostra regione ha realizzato nel 2013 un fatturato di 393 milioni di euro, dando occupazione a 1.750 persone.
È reale una certa ‘sudditanza’ delle aziende agroalimentari rispetto a posizioni dominanti della distribuzione commerciale?
“Questa non è certo l’esperienza di Aspiag Service Despar Nordest, così come credo non lo sia per la maggior parte delle aziende della Gdo. Noi preferiamo lavorare in partnership con chi è in grado di garantire prodotti di qualità, pur tutelando la convenienza a vantaggio dei nostri clienti e di tutti i consumatori. Per noi, inoltre, è molto importante e qualificante promuovere i prodotti e i produttori legati al territorio dove siamo presenti: è un modo di rispondere a una precisa richiesta da parte dei consumatori, e anche di sostenere e far crescere realtà economiche locali che altrimenti sarebbero penalizzate o a rischio di scomparsa. Per questo preferiamo vivere la relazione con le aziende agroalimentari in una prospettiva che sia vincente per tutte le parti”.
Per quali scopi era nata la vostra partecipazione a Centrale Italiana e cosa comporta oggi la sua fine?
“L’obiettivo di Centrale Italiana, come di tutte le grandi centrali d’acquisto, era quello di ottimizzare la definizione delle condizioni commerciali di acquisto dei prodotti presso l’industria. In realtà Aspiag Service non era in Centrale Italiana come socio diretto, bensì in virtù dell’appartenenza al Consorzio Despar Italia, che ha lasciato Centrale Italiana già lo scorso giugno. Di fatto, lo scioglimento della Centrale non ha avuto ripercussioni dirette sulla nostra azienda: la parte di contratti definiti da essa era residuale rispetto a quelli portati avanti direttamente. Per noi, quindi, è cambiato ben poco”.
Più in generale, come giudica lo scenario oggi della Gdo in Friuli Venezia Giulia?
“La situazione non è omogenea. Per alcune aree in cui effettivamente sembra non esserci più spazio per lo sviluppo di nuovi supermercati, ce ne sono altre dove i servizi non sono sufficienti e c’è non solo spazio, ma anche bisogno di nuove aperture. Penso, per esempio, a certe località rurali o montane, dove la chiusura del market di paese a volte rappresenta un vero e proprio dramma. La nostra azienda ha scelto di espandersi dove è realmente possibile, ma in modo sensato, privilegiando le medie o piccole dimensioni, che non superano i cinquemila metri quadri, e attraverso il canale dei piccoli dettaglianti in franchising: il negozio di vicinato resta per noi un elemento portante”.
Per la produzione agroalimentare non esistono alternative: è indispensabile confrontarsi con i canali della grande distribuzione organizzata e, quindi, anche con le grandi centrali d’acquisto. Altri canali, come la vendita diretta, troppo mitizzata, sono sole gocce nel mare. Il problema, secondo Nicola Galluà segretario generale di Confcooperative Fvg, è che in un periodo di forte crisi dei consumi, la guerra del prezzo si è giocata tutta sul mercato locale, anziché sfogare volumi e raccogliere margini all’estero dietro alla bandiera del Made in Italy.
È reale la sudditanza delle coop agroalimentari rispetto a posizioni dominanti della distribuzione commerciale?
“Va detto che la grande distribuzione rappresenta un canale di vendita necessario ogni qual volta un’impresa agroalimentare voglia avere successo su un mercato diverso da quello prettamente locale: pensiamo, forse, che Latterie Friulane, per fare un esempio, potrebbe vivere di sola vendita diretta?
Per i prodotti del Made in Italy, che tutto il mondo ci invidia, la grande distribuzione è, direi, indispensabile. Per essere presenti al meglio in questo canale di vendita, serve avere massa critica, prodotti di qualità controllati ed elevati volumi, oltre, ovviamente, a una struttura aziendale organizzata. Ogni azienda agroalimentare che voglia crescere e affermarsi sul mercato si pone l’obiettivo di entrare nella grande distribuzione organizzata per affermare i propri marchi e i propri prodotti.
Ciò rappresenta un investimento per il successo. Il problema, evidentemente, è che la grande distribuzione si trova oggi a operare in un clima di fortissima competizione tra i grandi marchi del settore, che nel nostro Paese vede a sua volta una posizione di riguardo per il settore cooperativo, ulteriormente resa feroce dal calo dei consumi in atto.
Il punto vero, sul quale io credo che la filiera tutta, di cui la grande distribuzione è l’anello finale, possa ritrovarsi unita, è fare il salto di qualità che porti il Made in Italy alla conquista dei mercati internazionali, dove far valere la qualità dei nostri prodotti. Già oggi, le cooperative agricole di successo sono quelle che esportano: penso, tra tante, alla Cantina di Casarsa”.
La vendita diretta è un’alternativa praticabile o solo un effimero palliativo?
“La vendita diretta può certamente rappresentare un’integrazione al reddito dell’azienda agricola, o un’occasione di diversificazione per la piccola cooperativa, ma non rappresenta assolutamente una soluzione strutturale per il sistema agricolo nel suo complesso. Basti pensare che in Friuli Venezia Giulia e in un settore specifico come quello lattiero-caseario, nel quale la vendita diretta è particolarmente diffusa, questa forma di commercializzazione rappresenta appena il 12% del totale.
Insomma, bisogna uscire dalle crociate ideologiche che hanno ‘mitizzato’ la vendita diretta, ingenerando anche nei produttori aspettative eccessive dalle quali rischiano di restare delusi. Certamente, è un canale che va esplorato e probabilmente anche potenziato, in particolare da parte delle aziende medio-piccole con un basso grado di specializzazione produttiva, disponibilità di manodopera familiare, come possono essere le aziende agricole che hanno avviato un’attività agrituristica. Oppure, può rappresentare un canale di integrazione al reddito per alcune cooperative, come le cantine e i caseifici, già strutturate per operare sul mercato. Pensare, invece, che la vendita diretta possa rappresentare una soluzione per aziende agricole strutturate a indirizzo cerealicolo-zootecnico è pura follia”.
Quale soluzioni proponete affinché un libero mercato possa valere negli interessi sia di chi produce, sia di chi consuma?
“Il mercato funziona se le regole sono certe, la burocrazia pesa poco, il carico fiscale si riduce. L’aumento dell’Iva in questi anni, per esempio, ha colpito i consumatori così come i produttori, perché ha depresso i consumi. Efficientare la filiera distributiva favorendo l’aggregazione, riducendo gli oneri burocratici e il carico fiscale sarebbero, invece, interventi di cui il consumatore fruirebbe direttamente. Il vero problema dell’agroalimentare italiano, però, è creare valore per gli agricoltori: senza di essi non c’è Made in Italy. Per fare questo serve un sistema Paese capace di puntare sull’export, serve un sistema cooperativo che punti sulla valorizzazione del prodotto, serve una filiera distributiva nazionale più efficiente e più portata ad accedere essa stessa sui mercati internazionali facendosi ambasciatrice dei nostri prodotti, penso al formaggio Montasio in particolare. Dobbiamo, poi, far tornare i giovani a pensare all’agricoltura come un’attività lavorativa attrattiva, fonte di reddito e capace di investire e rinnovarsi”.
Si perde o si vince tutti assieme
Si vince o si perde tutti, dal produttore al distributore. Lo sottolinea Fabrizio Cicero Santalena, direttore del Centro distributivo Despar del Friuli Venezia Giulia nonché direttore marketing di Aspiag Service, la società che gestisce 65 filiali dirette e circa 90 dettaglianti associati. Il marchio nella nostra regione ha realizzato nel 2013 un fatturato di 393 milioni di euro, dando occupazione a 1.750 persone.
È reale una certa ‘sudditanza’ delle aziende agroalimentari rispetto a posizioni dominanti della distribuzione commerciale?
“Questa non è certo l’esperienza di Aspiag Service Despar Nordest, così come credo non lo sia per la maggior parte delle aziende della Gdo. Noi preferiamo lavorare in partnership con chi è in grado di garantire prodotti di qualità, pur tutelando la convenienza a vantaggio dei nostri clienti e di tutti i consumatori. Per noi, inoltre, è molto importante e qualificante promuovere i prodotti e i produttori legati al territorio dove siamo presenti: è un modo di rispondere a una precisa richiesta da parte dei consumatori, e anche di sostenere e far crescere realtà economiche locali che altrimenti sarebbero penalizzate o a rischio di scomparsa. Per questo preferiamo vivere la relazione con le aziende agroalimentari in una prospettiva che sia vincente per tutte le parti”.
Per quali scopi era nata la vostra partecipazione a Centrale Italiana e cosa comporta oggi la sua fine?
“L’obiettivo di Centrale Italiana, come di tutte le grandi centrali d’acquisto, era quello di ottimizzare la definizione delle condizioni commerciali di acquisto dei prodotti presso l’industria. In realtà Aspiag Service non era in Centrale Italiana come socio diretto, bensì in virtù dell’appartenenza al Consorzio Despar Italia, che ha lasciato Centrale Italiana già lo scorso giugno. Di fatto, lo scioglimento della Centrale non ha avuto ripercussioni dirette sulla nostra azienda: la parte di contratti definiti da essa era residuale rispetto a quelli portati avanti direttamente. Per noi, quindi, è cambiato ben poco”.
Più in generale, come giudica lo scenario oggi della Gdo in Friuli Venezia Giulia?
“La situazione non è omogenea. Per alcune aree in cui effettivamente sembra non esserci più spazio per lo sviluppo di nuovi supermercati, ce ne sono altre dove i servizi non sono sufficienti e c’è non solo spazio, ma anche bisogno di nuove aperture. Penso, per esempio, a certe località rurali o montane, dove la chiusura del market di paese a volte rappresenta un vero e proprio dramma. La nostra azienda ha scelto di espandersi dove è realmente possibile, ma in modo sensato, privilegiando le medie o piccole dimensioni, che non superano i cinquemila metri quadri, e attraverso il canale dei piccoli dettaglianti in franchising: il negozio di vicinato resta per noi un elemento portante”.
Nessun commento:
Posta un commento