mercoledì 12 aprile 2017

Mucca spa, il business da 90 miliardi che ha spinto Trump alla guerra dei dazi

I trattamenti con ormoni e antibiotici hanno trasformato le vacche Usa in macchine da carne e latte. Washington deve esportare di più, ma l'Europa fa muro: con le annunciate ritorsioni, la nuova amministrazione ha aperto il suo primo scontro commerciale

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I "forgotten man" che hanno spinto a suon di voti Donald Trump alla casa Bianca possono attendere. "America First!", assicurava lo slogan elettorale del neo-presidente. La sua prima crociata autarchica però - più che i diritti dei "dimenticati" dal boom a stelle e strisce - ha avuto un protagonista a sorpresa: le mucche a stelle e strisce. O meglio la loro carne e il loro latte, il casus belli della guerra dei dazi scatenata dallo Studio Ovale contro l'Europa e che ha travolto non solo Vespa e San Pellegrino ma pure tutti gli equilibri commerciali del pianeta. Una sorpresa? Mica tanto. I numeri in ballo parlano da soli: la Bovini Spa in Usa è un affare da 88 miliardi l'anno, più o meno i ricavi di Google. Le aree rurali sono state la chiave del successo di Trump che tra Corn belt e stalle di Texas e Nebraska ha portato a casa il 66% dei voti. Risultato: appena insediato, il presidente è sceso in campo in difesa della gallina dalle uova d'oro dei suoi grandi elettori. Non un bipede pennuto, nel loro caso, ma vacche e manzi trasformati negli ultimi decenni - con l'aiutino di ormoni e selezioni genetica - in Terminator da bistecche e da latte. Una mandria di simil-Ogm a quattrozampe economicamente
iper-efficienti, diventati l'incubo degli allevatori nel vecchio continente, che hanno scatenato l'ira (e i dazi) di Trump alzando le barricate contro l'importazione di carne (anche "bio") delle rivali made in Usa. Nessuno, naturalmente, è senza peccato. 
Anche lestalle europee - come testimoniano le recenti diagnosi dell'Efsa, l'authority alimentare di Bruxelles - hanno i loro scheletri nell'armadio e spremono troppo le vacche in nome del profitto. Le regole nel Vecchio continente però sono chiare: l'uso degli ormoni è bandito e quello degli antibiotici (una sorta di placebo curatutto oltreatlantico) molto contingentato. E la differenza, portafoglio alla mano, si vede: il ricorso intensivo alla farmaceutica - calcola uno studio dell'Università del Minnesota - ha aumentato di oltre 300mila tonnellate l'anno la produzione di carne statunitense, consentendo un risparmio di 6 miliardi circa (-10%) dei costi per la gestione delle stalle. E i superbovini forgiati da questa cura, non a caso, sono entrati nel mirino della Ue fin dal 1988, anno in cui per la prima volta il Vecchio continente ha imposto un bando sulla bistecca americana, scatenando quella guerra dei dazi resuscitata ora da Trump.

I numeri
La mutazione ormonale dei quattrozampe a stelle e strisce ha trasformato in effetti la competizione tra Europa e Usa nel settore in una gara senza storia, una sorta di Gran Premio dove una vettura con il motore truccato e la benzina pompata di addittivi corre contro un'utilitaria di serie. I numeri dell'effetto ormone sono pietre: l'impianto su una bestia accelera del 10-15% l'aumento di peso. Come dire che un manzo trattato guadagna 150 grammi in più al giorno rispetto al suo simile nato sull'altra sponda dell'Atlantico. Non solo. L'aiuto farmaceutico agevola la produzione di carne magra, la più pregiata, che cresce a ritmi superiori dell'8-20% a seconda dei casi, come testimoniano diversi studi universitari.

Il peso dei bovini
E quando è l'ora di portare la povera bestia al macello, i risultati si vedono: nel 1985 il peso medio dei capi pronti per il commercio era di 280 chili, oggi di 382. La carne media ricavata da ogni animale grazie a questa dieta al contrario è balzata da 240 a 294 chili con evidenti ritorni economici per l'allevatore. Nel 1975 nelle stalle e sui prati americani pascolavano 131 milioni di capi. Oggi sono "solo" 96 milioni ma per il fabbisogno alimentare nazionale e le esportazioni (circa 6 miliardi l'anno verso Giappone, Messico, Cina, Corea e Medio Oriente) non c'è problema, visto che si è riusciti ad aumentare di molto la redditività di ogni singolo capo. La sola cura ormonale, secondo le stime della Cornell University, rende 15 euro netti l'anno a bestia senza contare i risparmi sui costi.

Macchine da latte
Risultati simili, grazie a un mix di elementi più eterogeneo, sono stati raggiunti anche lungo la filiera del latte. Gli ormoni in questo caso sono stati affiancati dalla selezione genetica delle specie più produttive e dall'overdose di luce artificiale imposta nelle stalle (la luminosità stimola la ghiandola pineale a produrre ormoni, aggiungendo l'8% alla resa). La morale però resta la stessa: le bestie si snaturano, ma il portafoglio si gonfia. Nel 1970 una mucca a stelle e strisce garantiva al suo "padrone" 4.122 chili di latte l'anno. Oggi 10.370, circa 28 chili al giorno contro i 4 di cui ha bisogno un vitello in fase di svezzamento. Nel 1944 nelle stalle Usa c'erano 25,6 milioni di bestie da latte. Oggi sono 9,6 milioni ma producono il 50% in più di materia prima di allora. E queste piccole industrie su zampe brillano pure per efficienza: trent'anni fa per produrre un litro di latte servivano circa 1,5 chili di mangime. Oggi ne basta di gran lunga meno della metà. Lavorare, ovviamente, stanca. E queste bestie superpompate in nome della redditività hanno una vita molto più breve e grama dei loro simili al pascolo o allo stato brado. La mortalità nelle stalle Usa è aumentata secondo la Cornell University dal 3,8% del 1996 al 10% attuale, con un 1% dei capi deceduti vittime di "severa depressione" per le condizioni in cui vivono. E ai 6 anni (contro i 20 di vita media di un bovino allo stato brado) anche gli animali da latte vengono avviati a macellazione. Un quadretto diverso dalle bucoliche immagini che ci vengono presentate sulle confezioni del latte e che spiega come mai in Gran Bretagna inizi ad aver un gran successo la vendita di latte (più costoso del 20-50%) munto da mucche allevate almeno per 6 mesi all'anno al pascolo e in libertà.

La salute che non conta
La salute delle bestie però, in un mondo fondato sul denaro, conta poco. E la Mucca Inc. è tornata agli onori della cronaca solo per la decisione di Trump di cavalcarla come testa d'ariete contro il protezionismo europeo. Il muro anti-ormoni del Vecchio continente si era in parte sbriciolato nel 2009 quando, dopo un lungo contenzioso al Wto, l'Europa ha scongelato l'importazione di 48mila tonnellate di carne a stelle e strisce purché fosse di alta qualità e "bio". Ma il compromesso, sosteneva a dire il vero anche Barack Obama, non è mai stato rispettato e per mettere fine all'ostracismo della Ue la Casa Bianca ha deciso di lanciare la carta della crociata travolgendo sul suo percorso con una pioggia di dazi i più bei marchi del made in Ue. Gli allevatori statunitensi, felici, festeggiano. La mossa del presidente è infatti forse solo l'aperitivo di un nuovo periodo d'oro per loro. Le supermucche forgiate nelle loro stalle non hanno rivali se sul piatto si mette solo la carta del prezzo e della resa. La Brexit potrebbe presto riaprire un mercato prezioso rimasto chiuso fino ad oggi per colpa dell'ostinata resistenza di Bruxelles. E dopo Londra altri mercati off-limits riaprirsi nel nome del risparmio. L'ultima barriera caduta, per dire, è stata quella della Cina. Che dopo 13 anni di bando totale ha riaperto le frontiere alle bistecche e agli hamburger americani. Pecunia non olet. E in nome del guadagno si possono digerire anche gli ormoni visto che in fondo, dati alla mano, gonfiano pure il portafoglio.

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