mercoledì 13 agosto 2014

Liberate gli animali

Allevamenti estensivi - I veterinari suggeriscono alle nuove iniziative imprenditoriali questa tecnica per migliorare il benessere dei capi, aumentare la qualità del prodotto e per sfruttare territori marginali.
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Benessere animale, qualità dei prodotti e recupero di territori abbandonati: questi tre obiettivi possono essere raggiunti con un’unica azione, ovvero la valorizzazione degli allevamento estensivi. Ne sono convinti i veterinari friulani, che hanno avviato un’azione di informazione nei confronti non soltanto degli imprenditori agricoli, ma anche delle istituzioni. In questa metodologia zootecnica, gli animali, in particolare i bovini, non vivono in batteria o all’interno di strutture coperte, ma hanno la possibilità di muoversi su terreni scoperti e nutrirsi con una maggiore varietà di alimenti. Secondo gli stessi veterinari, però, non si tratta tanto di un’opportunità per aziende già esistenti, che quindi dovrebbero riconvertirsi, ma per nuove iniziative imprenditoriali. La conoscenza di questa tecnica di allevamento, in verità quella originaria, non basta: come spiega il presidente dell’Ordine della provincia di Udine Renato Del Savio, servono anche contributi pubblici e agevolazioni fiscali.

Negli ultimi anni la stessa normativa europea e italiana ha spinto per migliorare il benessere animale: a che punto siamo arrivati oggi?
“L’Italia ha recepito la normativa europea sul benessere animale e, già da tempo, nel codice deontologico della professione veterinaria gli animali sono considerati esseri senzienti. Devo dire che la cultura del rispetto verso gli animali si sta diffondendo, anche se c’è ancora parecchia strada da fare. A mio avviso, infatti, ci sono ancora troppe situazioni nelle quali
il rispetto viene sostituito e confuso con l’antropomorfizzazione. Dare dignità a un animale significa riconoscerne il ruolo, la sua natura e non interpretare i suoi comportamenti come più conviene a noi”.

Come veterinari intendete sostenete la diffusione degli allevamenti estensivi?
“Non abbiamo né il ruolo né i mezzi per incentivare. Semplicemente, come è nostro dovere, cerchiamo di informare e di aumentare le nostre conoscenze in vari ambiti. Lo scopo della nostra iniziativa è quello di far conoscere ad allevatori, veterinari e alle istituzioni che ci sono opportunità di sviluppo, di lavoro e di salvaguardia del territorio e del benessere animale delle quali poco si è parlato e poco si conosce”.

Dove può essere adottata questo tipo di allevamento?
“I territori sono quelli nei quali altri tipi di imprenditorialità non sarebbero in grado di creare reddito: si pensi a territori incolti e abbandonati. È difficile pensare a riconversioni di aziende già avviate, penso piuttosto ad attività nuove”.

Su questo tema esistono ‘miti’ da sfatare ancora presenti tra gli imprenditori zootecnici?
“Non direi che ci sono miti da sfatare; semplicemente, chi si avvicina a questo metodo di allevamento lo deve fare con la stessa professionalità di quelli intensivi.
Non si pensi ai pastorelli dei quadri bucolici. Si tratta di imprenditori che devono affrontare tutti i problemi, anche burocratici, legati all’attività allevatoriale. Sicuramente, l’alimentazione è diversa e richiede, comunque, integrazioni per renderla completa; non si dimentichi che sono animali destinati a produrre cibo per l’uomo”.

In termini economici, l’allevamento estensivo rischia di penalizzare la redditività aziendale?
“Questo tipo di allevamento ha, indubbiamente, una produttività minore. Va considerato, però, l’aspetto qualitativo dei prodotti e anche, aspetto a mio avviso molto importante, la tipicità.
Mi spiego meglio: se più aziende alimentano i loro animali allo stesso modo e la trasformazione avviene nello stesso stabilimento, come per esempio il latte nei caseifici, il prodotto finale sarà sempre lo stesso, con le stesse caratteristiche e con lo stesso sapore; sicuramente il prezzo al consumo non potrà essere alto. Se, però, più aziende fanno pascolare i loro animali in aree diverse, diventa più logico trasformare in modo individuale in quanto sicuramente quei prodotti avranno sapori diversi, e questo va a vantaggio della qualità degli stessi. È vero che tutto questo ha ripercussioni sul costo di produzione, ma - e su questo punto abbiamo chiesto la sensibilità della politica - un territorio abbandonato costa molto di più in termini di danni ambientali di quanto non si spenda per incentivare un’attività di questo tipo”.

Toccando un tema collegato, seppur non direttamente, è una possibile soluzione anche per le problematiche recenti legate alla presenza di tossine nella filiera del latte?
“In tutte le produzioni sono necessari i controlli e la garanzia del  rispetto delle normative. La commercializzazione di latte con livelli di aflatossine superiori alla soglia ammessa è la conseguenza di controlli fatti male, non fatti oppure di malafede. Non è il tipo di allevamento che garantisce il consumatore, ma è, oltre all’attività di vigilanza e prevenzione, la cultura del lavoro svolto con professionalità che tanti allevatori hanno, ma non riescono a estrinsecarla in quanto lasciati troppo soli o, peggio ancora, strumentalizzati”.

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