Allevamenti nell’Est a costo zero E i maiali ottengono l’Igp europea
La metà della carne suina utilizzata in Italia è di importazione estera ma spesso la tracciabilità è falsificata
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Camion dopo camion, con carichi di cosce, carni congelate, animali vivi,
attraversano le frontiere di mezza Europa prima di raggiungere la loro
destinazione. Si tratta di centinaia di migliaia di maiali nati e
cresciuti in Romania, in Ungheria, in Polonia e in altri paesi dell’Est,
oppure in paesi che non fanno neanche parte dell’Unione Europea, come
la Turchia. Maiali allevati con standard piuttosto diversi da quelli
italiani o europei, ma che finiscono anche nelle filiere dei nostri
salumi tipici contrassegnati dal marchio europeo Igp, acronimo di
Indicazione Geografica Protetta. Un passo prima del Dop, per intenderci.
Nessuna limitazione -
«Non vi è limitazione geografica all’origine dei suini», si legge a
chiare lettere nel disciplinare di produzione del Prosciutto di Norcia,
uno dei più noti tra le 13 produzioni Igp relative al suino riconosciute
all’Italia. Il documento, come qualsiasi disciplinare, indica con
precisione i criteri che deve rispettare la coscia dell’animale (misure,
caratteristiche), la zona di produzione e le modalità di lavorazione e
conservazione delle carni e, in alcuni casi come quello di Norcia, gli
standard di allevamento (in particolare in riferimento al tipo di
mangimi). Ma nessun vincolo in merito all’origine delle carni. Allo
stesso modo, nessuna indicazione precisa di origine arriva dai
disciplinari degli altri Igp nostrani, dalla Coppa di Parma allo Zampone
di Modena, dalla Mortadella di Bologna alla porchetta di Ariccia, dal
Lardo di Colonnata allo Speck dell’Alto Adige, dal Cotechino di Modena
al Prosciutto di Sauris.
Questione di tracciabilità
- Le carni suine sono tra le meno tracciabili in Europa. Da dicembre
2014 entrerà in vigore il nuovo regolamento comunitario proprio sulla
tracciabilità, risultato di un lungo braccio di ferro tra politica e
lobby: la normativa imporrà etichette più dettagliate alle carni fresche
suine, uniformandole alle regole già previste per le carni bovine,
imposte dai tempi della mucca pazza. Lo stesso obbligo non varrà però
per i salumi, lasciando campo libero alla delocalizzazione all’estero.
Nonostante
l’imponente export di salumi italiani, da anni i rapporti Istat parlano
per l’Italia di un settore in deficit, schiacciato da «ingenti
quantitativi di carni fresche e congelate importate». I numeri più
recenti indicano che circa la metà della carne suina utilizzata nel
Paese è di importazione estera. Dei capi italiani, la stragrande
maggioranza (oltre il 70 per cento di circa 12milioni, nel 2012) sono
destinati ai prodotti di origine protetta (Dop), come il prosciutto di
Parma: gli unici che impongono l’utilizzo di capi nati e cresciuti
all’interno dei confini nazionali. Come a dire che per tutto il resto -
compresi gli Igp - ci sono altissime probabilità di avere a che fare con
le più economiche carni di importazione.
«Negli ultimi anni si
è visto un calo del numero di animali, in Italia», afferma Giovanna
Parmegiani, presidente Carni Suine per Confagricoltura. «Nell’ultimo
anno siamo passati da 650 mila scrofe a 500 mila scrofe, con un calo
molto importante». Risalgono agli scorsi mesi le immagini degli
allevatori di Coldiretti, che fermavano camion carichi di cosce di
maiale al valico del Brennero o manifestavano di fronte a Montecitorio
per chiedere maggiori tutele. «Due prosciutti su tre venduti oggi in
Italia provengono da maiali allevati in Olanda, Danimarca, Francia,
Germania e Spagna senza che questo venga evidenziato chiaramente in
etichetta, dove non è ancora obbligatorio indicare l’origine», sostiene
la Coldiretti, che lamenta anche in Italia «la possibilità di utilizzare
le cosce di maiale congelate per produrre il prosciutto crudo
stagionato».
Le nuove frontiere
- Sebbene, come denuncia Coldiretti, la maggior parte della carne suina
importata in Italia risulti ufficialmente provenire da paesi come
Germania e Olanda, la produzione in Europa si sta spostando sempre più
verso Est. Nell’ultimo decennio le multinazionali del settore hanno
investito miliardi di euro in Est Europa, spesso con il sostegno
economico dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Ebrd).
Le corporazioni hanno rilevato in questi paesi gli immensi stabilimenti
in disuso, eredità degli anni del comunismo, attratti dai costi minimi,
da labili controlli, da normative su ambiente, lavoro, standard di
allevamento e benessere animale molto più morbide, e dalla prospettiva
di entrare nel mercato comunitario.
«Col nuovo millennio la
Comunità Europea ha fatto il cosiddetto pacchetto igiene», afferma
Massimo Chiovoloni, medico veterinario e dirigente per l’Igiene e la
prevenzione nella zootecnia per la Asl di Perugia. «Una serie di
regolamenti comunitari che gestiscono tutta la filiera della sicurezza
alimentare, da chi coltiva i campi ai produttori di mangime, fino al
ristoratore». «Tecnicamente, - continua Chiovoloni - un paese per
entrare nella comunità deve dare le stesse garanzie che danno gli altri
paesi... nella pratica c’è qualche problema: noi rispettiamo certe
regole, da altri paesi, in realtà, non è sempre così, o perché sono
appena entrati, o perché ancora non sono entrati. Però prendiamo dei
prodotti e questo ovviamente porta difficoltà».
Su tutte, la
multinazionale americana Smithfield Foods, primo produttore di carne
suina al mondo, ha letteralmente colonizzato in pochissimi anni paesi
come la Polonia o la Romania, nel frattempo «abilitati» all’export in
tutta l’Ue, con decine di maxi-stabilimenti intensivi. La stessa
Smithfield è anche il maggiore azionista del colosso spagnolo Campofrio
Food Group, leader europeo per le carni confezionate, che a sua volta è
proprietario del più noto marchio della norcineria Italiana, Fiorucci.
Nel 2013 la Smithfield è stata essa stessa oggetto di una compravendita,
rilevata per la cifra record di 4,7 miliardi di dollari dal gruppo
cinese Shuanghui International. Un colosso che oggi ha cambiato nome nel
più occidentale «WH Group» e che è di gran lunga il principale
produttore di carne suina al mondo.
Dalla Turchia all’Igp
- La «colonizzazione» dell’Est Europa, insieme a sistemi di
“nazionalizzazione” delle carni che si basano sulla sosta dei capi anche
per pochi giorni in un dato paese, è tra gli elementi che hanno reso
l’Europa e l’Italia molto più permeabili anche all’import di carni extra
UE, ufficialmente consentito solo da pochissimi paesi come il Cile (da
cui nel 2013 abbiamo importato 1,6 milioni di tonnellate di carne di
maiale congelata) o gli Stati Uniti. È questa una delle chiavi di
lettura che spiega quanto affermano, chiedendo di restare il più delle
volte nell’anonimato, un allevatore a Norcia, un allevatore della
provincia di Perugia e un intermediario che opera nel settore carni a
Roma, che a proposito della cittadina umbra simbolo della produzione di
salumi sostengono come «a Norcia i maiali arrivano dalla Turchia».
Un
caso limite, quello dei maiali turchi, che indica un fenomeno in cui
dietro una facciata di tipicità si celano prodotti dalle origini più
disparate. Un caso che richiede ancora più attenzione, se si considera
il ritmo frenetico in cui anche il business delle carni sta evolvendo
nel mondo. Basti pensare come solo nelle ultime settimane la Cina abbia
intrapreso un fitto export di carne suina verso la Russia, e come lo
scorso mese una delegazione della provincia dello Yunan, in Cina
Meridionale, ha incontrato proprio le autorità locali di Norcia per
avviare «un rapporto di cooperazione per lo sviluppo di attività
commerciali (…) in particolare nella filiera del suino»
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