giovedì 27 novembre 2014

La brutta novella del formaggio cru. Che non è figlio dell'erba ma solo della tecnica

Foto tratta da: "winenews.it"
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27 novembre 2014 - Da qualche tempo circola in Italia un Parmigiano Reggiano cosiddetto “dei cento giorni”, che pare debba la sua diversità al fatto di essere prodotto con il latte dei primi tre mesi di lattazione delle vacche. Sul quotidiano Italia Oggi di mercoledì 19 novembre, finalmente qualcuno si decide a raccontarcene i perché. Il titolo dell’articolo è assai curioso: “E anche il re dei formaggi ha il suo gran cru millesimato". L’ideatore di questa novità spiega al suo intervistatore che: "il latte dei primi cento giorni è più nutriente e ricco in sostanza secca per essere più digeribile per il vitello" e che "è particolarmente indicato per la produzione d’un formaggio a lunga stagionatura. Ha, infatti, una fortissima sineresi(1), per cui la sua cagliata rilascia molta più acqua e consente di fare la cotta a 48°C, invece che a 55°C, come di norma. In questo modo, sopravvive un
maggior numero di quei batteri buoni - lactobacillus helveticus, lactobacillus delbrueckii subspecie lactis, e subspecie bulgaricus, e lactobacillus fermentum - che conferiscono al Parmigiano Reggiano i suoi aromi, profumi e sapori tipici”.

Attenzione però, perché nel mondo del vino la parola cru sta ad indicare un prodotto di un’areale molto ristretto, in cui le specificità del suolo e le condizioni microclimatiche conferiscono alle uve note aromatiche particolari tali da caratterizzare il vino che ne deriva. Nei formaggi, per analogia, si potrebbe e si può parlare di cru perché, forse più che nel vino, un pascolo particolare, con un’esposizione specifica, può fortemente caratterizzare un formaggio a tal punto da consentire, a chi abbia un minimo di competenza, di riconoscerne la diversità.
Vi devo confessare che, non appena letto il titolo, per un attimo ho pensato che finalmente qualcuno in questo settore si fosse liberato del luogo comune secondo cui il formaggio si fa in caseificio, non nella stalla. A ben pensare, più ne leggo e più ne sento e più penso che questo settore sia in grossa sofferenza, anche perché ad essere ignorata è la qualità del latte e che, proprio per questo, i consumatori non riescono ad avere le chiavi di lettura della qualità reale, disorientati come sono da un’informazione che riconduce pressoché tutto alla tecnica casearia. Basti pensare alla legge sull’Alta qualità del latte alimentare, che ci ha portati a bere latti in cui proprio la qualità è latitante. E pensare che, con quel titolo, mi ero illuso che qualcuno finalmente avesse iniziato a parlare di Qualità con la "Q" maiuscola, e invece - e ancora una volta - le motivazioni accostate al "latte dei primi cento giorni”, che inizialmente sembrano ricondurre alla qualità originaria del latte, alla fine tornano a battere sul solito tasto, per dire (ancora una volta!) che grazie a questo latte si può adottare una tecnica meno invasiva.

Ma proviamo a scendere un poco nei dettagli, per vedere se la qualità del latte c’entra oppure no. Ripartiamo dall'assunto secondo cui nei primi cento giorni di lattazione la qualità del latte è diversa, ovvero migliore, perché aumenta la percentuale di sostanza secca in esso contenuta. Sinceramente, in tanti anni di ricerca e di studi non ho mai sentito un’affermazione del genere. Perché mai la natura avrebbe disposto che gli animali - quantomeno i mammiferi, quindi anche gli esseri umani - solo nei primi cento giorni dovrebbero produrre un latte di migliore qualità per il lattante? Sapevo e so che la sostanza secca aumenta alla fine della lattazione, non all’inizio. Ma anche ammesso che fosse vero, che c’entra la sostanza secca con la sineresi o con la qualità del formaggio? Una sineresi diversa, al massimo dà vita ad un formaggio leggermente diverso, ma da qui a dire che sarà migliore ce ne corre, eccome! Si dice che questo fattore consentirebbe di cuocere la pasta casearia a temperatura più bassa, e questo a sua volta permette una presenza di un numero più elevato di lattobacilli. È probabile: qualche grado di temperatura in meno dà senza dubbio un siero-innesto diverso, e una flora microbica diversa, ma siamo sempre nell’ambito della tecnica, non della qualità del latte di partenza. E poi, se anche queste differenze ci fossero - credetemi - sarebbero impercettibili per la stragrande maggioranza dei consumatori, sia perché i "grana" si utilizzano per lo più come formaggi da grattugia, sia perché non sono dei lattobacilli a fare una differenza così importante ed evidente. Sarebbe tutto molto più semplice e veloce se si migliorasse l’alimentazione delle vacche: allora sì che le differenze sarebbero palesi alla gran parte della gente!

Capisco che oggi per creare delle nicchie di mercato è necessario raccontare una diversità. La situazione è difficile e le opportunità poche, ma un poco di onestà intellettuale da una parte, e di preparazione giornalistica dall'altra, non guasterebbero. Le aziende continuano a chiudere, soprattutto quelle che producono un buon latte, ma intanto questo - a chi dice che per fare un formaggio cru basta la tecnica - poco importa.

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