Nell’intervista di ieri al Velino il presidente dell’Ice Riccardo Monti, oltre ad ammettere l’elevato tasso di assenteismo nei suoi uffici (rispetto al quale si dichiara sostanzialmente disarmato), dà un’altra notizia: le sanzioni alla Russia stanno costando all’export italiano moltissimo, addirittura quattro volte più del previsto. Rispetto a un “perimetro sanzionatorio” di 250 milioni nel 2014, relativo ai prodotti soggetti appunto alle restrizioni decise dall’Unione europea contro il governo di Vladimir Putin, l’Italia si troverà a fine anno con un miliardo di mancate esportazioni. Ed a pagare saranno le piccole e medie
aziende manifatturiere, quelle con minore forza contrattuale verso le banche e verso le stesse autorità russe: le quali non possono certamente privare i loro cittadini di fascia medio-alta dei prodotti di lusso, così come non può privare le aziende di componenti e robot indispensabili a funzionare.
Dunque ne stanno facendo le spese esportatori di scarpe, di prodotti agricoli e gastronomici, di olio d’oliva, di mobili. Per i quali è già scattata la concorrenza più o meno sleale del Medio Oriente, del Sudafrica, ma anche di paesi della stessa Ue meglio attrezzati o più furbi di noi. Il presidente dell’Ice afferma che il suo istituto si batte “con veemenza, notte e giorno” per contenere i danni. E punta il dito contro le banche colpevoli di non sostenere adeguatamente l’export di queste piccole e medie imprese, per non avere rogne in un paese complesso come la Russia, dove la burocrazia in entrata è saldamente controllata dal governo.
Eppure ai tempi del regime sovietico l’Italia era presente in Russia non solo con le automobili assemblate in luogo dalla Fiat, ma con tecnologia e beni di consumo. Eppure erano gli anni nei quali sugli scaffali dei grandi magazzini di Mosca e di Leningrado la gente comune non trovava nulla, mentre l’export italiano era appetito dalla nomenklatura e dalle aziende: possibile che oggi, con la liberalizzazione dei mercati, si sia persa quella capacità che avevamo in piena guerra fredda? Possibile che il governo, con tutti i soldi che piovono sulle banche a tassi minimi dalla Bce, non convinca i nostri istituti di credito a fare il loro dovere con le aziende che nella crisi tengono in piedi l’economia del Paese? Possibile che non ci riesca la Banca d’Italia, che un tempo esercitava la sua moral suasion? Ma il caso Russia pone altre domande.
Fin dall’inizio avevamo scritto che le sanzioni anti-Putin sono sbagliate. Come è noto esse dipendono dall’atteggiamento autoritario, o peggio, di Mosca verso l’Ucraina: tralasciando le molte promesse in precedenza fatte e non mantenute dall’Unione europea e dalla Nato a Kiev (aiuti economici e militari, ingresso accelerato nella Ue), ma allora perché non estendere le sanzioni alla Cina, che ignora i diritti umani e che oltretutto ci fa concorrenza sleale nel commercio e su molti prodotti tutelati? Perché non sanzionare l’Iran o la Nigeria? In realtà le sanzioni non hanno mai risolto nulla e quasi sempre si sono rivelate un boomerang per chi le ha proclamate. La questione Russia è surreale, e rivela in realtà lo stato confusionale e l’impotenza europea ad affrontare la grandi questioni di politica internazionale. Come si è visto al G20 di Brisbane, l’Occidente e l’Europa hanno cercato di dare una lezione al nuovo zar del Cremlino, isolandolo anche fisicamente: la scena di Putin che alla cena dei big se ne sta al tavolo solo con la presidentessa del Brasile Dilma Rousseff, preludio alla partenza anticipata dello stesso Putin, è il simbolo di fallimento e doppiezza. Poco dopo Angela Merkel si incontrava a parte con Putin cercando un negoziato separato. La Germania è il grande cliente di Mosca, e la Cancelliera non è nuova a questo doppio binario, come si è visto anche al summit di Milano. Tuttavia gli incontri notturni non hanno prodotto un granché se la Merkel ha poi dichiarato che la crisi potrebbe estendersi a Moldavia, Georgia, a tutti i Balcani, alla stessa Serbia, mentre Putin ha minacciato la Germania che un contro-embargo potrebbe costare almeno 300 mila posti di lavoro tedeschi.
Nel frattempo Mosca ha siglato l’accordo trentennale di fornitura di energia alla Cina e ai suoi paesi satelliti. Sembra di tornare ai tempi della Cortina di Ferro, del mondo diviso in due blocchi: se non fosse per il fatto che i capitali economici e finanziari continuano a correre per il mondo, vanno dove vogliono, e l’Italia è in fila per intercettare i fondi sovrani cinesi. Senza contare, soprattutto, che se la Russia non se la passa benissimo, non si può certo dire che l’Europa in recessione o stagnazione sia in condizione di affrontare una guerra commerciale ed energetica con uno dei grandi player mondiali. Per non parlare di una guerra militare come quella minacciata sventatamente dal nuovo segretario della Nato Jens Stoltemberg, norvegese. E ha fatto benissimo il nuovo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni a dissociarsi da quelle parole irresponsabili. L’Europa, e l’Italia, hanno già pagato errori macroscopici e schizofrenia in politica economica. Ora l’Italia pensi a tutelare le sue piccole aziende, che hanno tenuto in piedi l’export e il lavoro.